Lavoro aperto, condivisione, revisione e cooperazione. Erano queste le basi ideologiche su cui poggiava il lavoro dei ricercatori negli anni ’50 e ’60 mentre cercavano di dar forma a quello che oggi chiamiamo Internet. Un manipolo di esperti IT che collaborava con un approccio open per creare i primi protocolli di rete. Si scrivevano i codici sorgente, li si condivideva, venivano restituiti feedback e, laddove necessario, si procedeva alla modifica. Un modus operandi che non può non ricordare l’odierno approccio Open Source. Le stigmate sono le stesse, la cultura di fondo pure.
Da Internet ai software Open Source
Quando è nato il concetto di Open Source inizialmente ci si riferiva solamente al software open source (conosciuto con l’acronimo OSS). Un programma open source è dotato di un codice sorgente accessibile pubblicamente. Qualsiasi utilizzatore, che sia un privato, un ente o un’azienda, può modificarlo e poi distribuirlo a seconda delle proprie esigenze. Esattamente come per le prime elaborazioni di Internet anche un OSS è fondato su una cultura aperta e collaborativa. A crearlo non sono aziende o privati, ma vere e proprie community di sviluppatori che lo creano, lo revisionano e lo modificano costantemente. In totale libertà.
Dall’OSS a un concetto Open Source più ampio
Visto il successo dei software Open Source e dell’impalcatura ideologica che li sostiene ben presto il concetto si è ampliato. Oggi assistiamo ad un vero e proprio modello organizzativo Open, declinato in diverse aree e differenti settori. I postulati di fondo sono sempre gli stessi: lavoro decentrato, competenze orizzontali, cooperazione e valori aperti. Un esempio potrebbero essere le moderne organizzazioni di lavoro, basate su un’impostazione liquida dove non esistono gerarchie ma solamente una commistione vincente di competenze.
Il dilemma semantico: libertà o software aperto?
Con l’avvento dell’approccio open si è però erroneamente caduti nella trappola dei fraintendimenti. Spesso la parola libertà è stata quindi associata a gratuità, creando confusione negli utilizzatori finali. Un OSS è sì libero, ma non necessariamente gratuito.
Il concetto di libertà applicato all’Open Source nasce nel 1983, quando Richard Stallman diede vita al progetto GNU (e di conseguenza a tutto l’approccio open). Secondo il programmatore e attivista statunitense l’idea di fondo di un “software libero” era poggiata sul fatto che un utente (utilizzatore del software) avesse la libertà di visionare il codice sorgente e modificarlo o distribuirlo secondo le proprie necessità. Per i meno esperti però (che non entravano nel profondo del discorso) la parola “libero” continuava ad essere un sinonimo di gratuito. A porre fine alla questione ci pensò la studiosa Christine Peterson, che coniò nel 1998 il termine “software open source”.
Software open source vs software proprietario: quale preferire?
Ma quali sono i tratti vincenti dell’approccio open che ci portano oggi a preferirlo alle soluzioni proprietarie? Innanzitutto la possibilità di avvalersi di una Community che revisiona, corregge e modifica il codice sorgente in continuazione. Da questo ne deriva una maggiore affidabilità rispetto ad un software proprietario: la revisione e gli aggiornamenti sono più costanti e l’approccio aperto ne garantisce una più rapida individuazione di errori o bug. Da non dimenticare anche la questione relativa alla flessibilità: il codice sorgente open può essere modificato in base alle esigenze dell’azienda, se necessario anche scalato per far fronte a nuovi bisogni.
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