Il collettivo Ippolita non è un esperimento assolutamente nuovo. Lo è, forse, nella nicchia della scrittura tecnologica, ma affonda le sue radici nelle metodologie di un famoso progetto precursore nel panorama italiano: Wu Ming, collettivo di scrittori che salì alla ribalta con il romanzo “Q”. Ippolita però affronta come nessun altro un argomento tanto antico quanto sempre attuale: la libertà. Che oggi non si può non declinare nell’ambito digitale.
Collettivo Ippolita: cos’è?
Il collettivo Ippolita – come evidenziato sul sito – è “un gruppo di ricerca indipendente e interdisciplinare” che si occupa di “tecnologie digitali e filosofia della tecnica”. Si è formato nel 2004 all’interno dell’Hacklab Reload di Pergola, a Milano e sostiene di “praticare l’hacking del sé come antidoto alla collusività degli automatismi”.
La loro storia parte da un preciso riferimento storico: Linus Torvalds, l’inventore del kernel Linux, ovvero quel programma che all’interno di un PC decide come si devono comportare gli altri programmi: chi fa cosa, come, quando, etc. etc. Il collettivo Ippolita, a differenza di Linux, non condivide “codici”, ma porzioni di testo. Ogni piccola creazione testuale viene analizzata dai partecipanti, corretta, rivista e poi pubblicata. In modo completamente libero e democratico, scevro da ogni condizionamento gerarchico. Senza dubbio premesse importanti, ragion per cui il loro pensiero sull’Open Source è senz’altro da analizzare nel dettaglio.
Open Source: e se fosse un inganno?
Inganno. È questo il postulato di partenza del gruppo Ippolita. Inganno perché oggi viene venduta l’idea che l’Open Source sia un software libero, anche se nella realtà dei fatti non lo è. È un software gratuito, certo, ma non libero. Il motivo? Semplice, ad essere liberi sono i codici dei software, ma non la gestione dei nostri dati come utenti. Quindi è possibile gestire e modificare liberamente un software, ma non sappiamo come la macchina si comporta con i dati.
Autodifesa digitale: il nuovo obiettivo di Ippolita
Ecco allora che compare un nuovo obiettivo sullo sfondo di questo collettivo di scrittori dalla formazione hacking: l’autodifesa digitale. Per ottenere l’accesso al patinato mondo del consumismo digitale accettiamo, ogni volta che accediamo al PC, di sacrificare una parte della nostra libertà. Abbagliati dall’idea della gratuità rilasciamo i nostri dati senza curarci di come vengono trattati e del giro interno al web che sono destinati a compiere. Quasi un paradosso, se si pensa alle motivazioni che hanno portato alla creazione di Linux e dell’Open Source.
Cosa fare adesso? Continuare a combattere
Secondo il collettivo Ippolita ora la soluzione è quella di intavolare una nuova battaglia, ancora più feroce se serve, per instillare nella popolazione il dubbio e concorrere alla formazione di un nuovo pensiero basato sulla consapevolezza dei tranelli digitali. Come da loro stessi dichiarato in una bellissima intervista a La Repubblica la soluzione non è “individuare buoni e cattivi” ma “quella di riconoscere la necessità dei movimenti radicali, siano essi il femminismo, l’ecologismo o – appunto – il movimento per il software libero”. Intraprendendo quale direzione? Quella di un ritorno alle origini e alla filosofia che ha aperto la strada all’Open Source, perché l’unico sistema per arginare la deriva è capire da dove siamo venuti e perché abbiamo agito in questo modo.
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